In questa domenica troviamo il tema molto delicato della malattia e della sofferenza. Un tema che tocca tutti quanti perché fa parte della realtà di tutti i giorni. Per quanto possiamo allontanarne l’idea, è l’esperienza che scuote le profondità del nostro animo; ci fa perdere la pace e quell’equilibrio che prima ci aveva caratterizzato nella fase della salute. Un seminarista di Torino morto nel 2009 di leucemia, di nome Max Infante, che io conobbi nell’ultimo anno della mia permanenza in seminario, l’anno prima di ammalarsi aveva fatto il servizio di barelliere a Lourdes e ritornando da quella esperienza disse più o meno queste parole: «Lourdes ci guarisce dalla nostra presunzione di non ammalarci mai».
La reazione di Giobbe è anche la nostra reazione di fronte a Dio. La malattia è fonte di rabbia, di ribellione, di non accettazione; ma soprattutto quello che fa soffrire Giobbe è la sua solitudine, il fatto di non essere compreso dagli amici e di sentire l’abbandono di Dio, il suo silenzio, la sua lontananza, il proprio «perché?» che non trova risposta.
Non è mancanza di fede se ce la prendiamo con Dio!
È comunque voler continuare a dialogare con Dio e oserei dire che è inevitabile un passaggio del genere. Nella malattia si delineano due strade: o non credere più a questo Dio che smentisce con i fatti quello che dice di essere — cioè «Amore»; oppure continuare a credere che Dio è amore anche nelle situazioni più estreme, anche se non comprendo il perché di tutto questo. Una cosa è certa: Dio non vuole la malattia, perché Gesù risanava e guariva coloro che lo avvicinavano. La guarigione della suocera di Pietro è emblematica: ella non chiede di essere guarita, Gesù sa che la malattia non fa parte della nostra condizione di persone libere. Infatti, quando siamo malati non possiamo fare nulla, non possiamo più agire, non possiamo più metterci al servizio. Gesù la guarisce perché ella si metta subito al suo servizio. La nostra salute non è per noi, ma per gli altri, per metterla al servizio del prossimo. Fin quando stiamo in salute e Dio ci permette di vivere discretamente bene dobbiamo agire come fece Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero». Il cristianesimo spesso è un po’ dipinto di dolorismo, come se Dio avesse bisogno del nostro dolore per portare la sua salvezza: sarebbe un Dio sadico. Dio non ha bisogno che noi offriamo il nostro dolore, ma che noi offriamo la nostra vita e la nostra libertà anche nella condizione di malattia. Come per Gesù, Dio Padre non ha gradito la sua sofferenza, ma la sua obbedienza fino al dono estremo della vita sulla croce.
Gesù non ha guarito tutti, come anche oggi qualcuno viene guarito miracolosamente, ma la maggioranza no. Questo ci dice come il Regno di Dio davvero sia già presente nel mondo, è in germe ma non è ancora definitivo.
Quelli che non vengono guariti allora non sono amati da Dio? Direi proprio di no. Gesù c’insegna a non ripiegarci sulla nostra malattia, ma ad entrare in relazione con il Padre ed è questa la guarigione che possiamo ricevere tutti. Anzi quelle guarigioni nascono sempre dalla fede delle persone e c’insegnano che è la fede che salva e porta la pace nel nostro cuore. Non dobbiamo dire a Dio come debba fare, perché lo facciamo diventare un «distributore» di grazie a nostro consumo e gradimento. Dio diventerebbe un oggetto dei nostri desideri e non più un «soggetto» con cui entrare in relazione. Gesù non vuole essere scambiato per un taumaturgo, ma attraverso la sua preghiera, la sua relazione profonda con il Padre c’insegna che è qui la chiave di lettura per affrontare anche la malattia e la sofferenza che verranno annientate definitivamente quando Dio sarà tutto in tutti.
Sia lodato Gesù Cristo.