Ci stiamo avvicinando a grandi passi a contemplare «l’amore più grande», nel quale saremo invitati a contemplare il mistero d’amore di Dio per l’umanità. Anche noi come i greci vogliamo vedere Gesù; un vedere che può rischiare di rimanere semplice curiosità, conoscenza di fatti esterni a noi, come i due discepoli di Emmaus che ritornavano tristi senza aver capito i misteri della vita di Cristo. Quel vedere deve andare oltre ad un puro sguardo esteriore, deve significare per noi l’entrare dentro il segreto della sua vita, un renderci conto di persona di questo amore, farlo diventare nostra eredità perché ci trasformi dal di dentro.
Anche noi quando ci accosteremo al Telo sindonico lo vedremo con i nostri occhi. Ma quali occhi? Quale sguardo? Potremmo essere incuriositi dai particolari sfuggiti in altre ostensioni passate, essere desiderosi di aumentare la nostra sete di conoscenza sul telo; in realtà la vera ostensione inizia dentro di noi, nel nostro cuore: andare davanti alla Sindone significa per un credente incontrarsi con il mistero della vita di Gesù che si riflette sul senso da dare alla nostra vita; significa continuare a credere che la mia vita e quella di Gesù s’incontrano nel mistero di morte e resurrezione.
È curioso come noi siamo attratti da un segno di morte, perché la Sindone rappresenta proprio questo! È curioso perché oggi la nostra società tende a nascondere la morte, quando qui la morte è attrazione per molti pellegrini e persone non credenti. Perché? Perché quel telo, segnato da morte cruenta, sofferta, torturata, lascia trasparire da quel volto tumefatto la serenità e la pace; lascia trasparire non morte decomposta, ma vita, luce e speranza; l’uomo della Sindone è un uomo che ci è vicino perché ha trovato la sua pace in Dio, nonostante la massima crudeltà e cattiveria degli uomini. Quell’uomo impresso cancella il lato oscuro della morte che fa paura agli uomini e lascia intravedere una morte accettata, condivisa perché noi ne fossimo testimoni. Allora possiamo capire le parole di Gesù sul seme: l’ora di Gesù è il dono supremo della sua vita sulla croce; quel seme è lui che muore per far nascere altri semi che siamo noi; la sua morte, il suo sacrificio soddisfa la nostra sete di verità e di bene; Gesù-seme muore perché noi possiamo incontrare e conoscere Dio non più solo attraverso una conoscenza esteriore, attraverso un insegnamento, ma direttamente nel nostro cuore. C’è, infatti, un insegnamento che nessuno può dare: la conoscenza profonda di Dio, il riconoscimento della fede. «Tutti mi conosceranno dal più piccolo al più grande» perché Dio stesso rimuoverà l’ostacolo del peccato, che ingombra lo sguardo e impedisce di «vedere». Gesù ha portato frutto perché ha imparato anche lui ad essere Figlio: «imparò l’obbedienza dalle cose che patì». Il seme genera altri semi simili perché anche questi possano a loro volta morire e portare frutto: «Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore». La domanda dei greci di vedere Gesù e la nostra domanda trovano piena risposta: per «vedere Gesù» occorre essere inseriti nel suo mistero d’amore, stare dov’è lui, condividere la sua piena adesione alla volontà del Padre, decidersi a seguirlo non attraverso esperienze intense ma momentanee, bensì ogni giorno nella via dell’amore e della donazione di sé per Dio e per il bene dei fratelli.
Sia lodato Gesù Cristo.