Pietro non attenua, non nasconde la responsabilità del popolo di fronte all’omicidio più incredibile della storia dell’umanità: è stato ucciso l’autore della vita, Cristo Gesù. È stata la più grave colpa, una svista degli uomini derivante da una profonda ignoranza di quello che facevano: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno», afferma Gesù dalla croce. Di fronte ad una colpa così grave noi potremmo pensare che non ci sia nessuna alternativa, come quando noi commettiamo una colpa che ci sembra imperdonabile. Questa colpa dell’umanità Dio non l’ha resa insuperabile, ma l’ha assunta come un nuovo punto di partenza per donare la sua misericordia e il suo perdono. Se non è stata condannata da Dio Padre questa colpa per noi imperdonabile, nessun peccato, nessuna colpa, per quanto possa essere grave, è insuperabile. Noi non l’abbiamo condannato fisicamente Gesù, perché non c’eravamo e quindi non ci sentiamo diretti responsabili di questa morte, ma siamo solidali con questa umanità che è rinchiusa nel peccato e noi oggi possiamo di nuovo condannare Gesù al patibolo non riconoscendo che abbiamo bisogno di conversione e di perdono. Queste parole accorate di Pietro sono rivolte a noi oggi, adesso: noi abbiamo chiesto che ci fosse graziato un assassino e abbiamo ucciso noi l’autore della vita. Quando non cogliamo, oggi, questa offerta di grazia, di misericordia, di perdono è come se per noi non esistesse il sacrificio della croce, anche se davanti a noi vediamo il Crocifisso. È il definitivo accorato appello del Padre all’umanità, come espresso anche in san Giovanni: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate, ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paraclito presso il Padre: Gesù Cristo, il Giusto». Non basta per gli Undici, come anche per noi, che Gesù sia visto, ascoltato, toccato, che mangi davanti a noi perché i discepoli giungano alla fede. Occorre ancora l’apertura della mente all’intelligenza delle Scritture. Senza la comprensione della Scrittura non si dà la vera fede pasquale, continuiamo a rimanere nella nostra ignoranza. Gesù dice: di questo voi siete testimoni. Di quale testimonianza sta parlando? Della Scrittura! Essere testimoni del Risorto significa prima di tutto essere testimoni della Scrittura che parla di Lui. La Chiesa ricerca in tutte le Scritture ciò che si riferisce a Lui. Il termine martys proviene da una radice che significa «pensare», «ricordarsi». Il testimone è colui che medita, si ricorda della Parola di Dio ascoltata. Solo da qui nasce la richiesta, il desiderio della conversione perché la Parola di Dio non ci fa rimanere inerti ma ci fa agire di conseguenza. Se non agiamo rimaniamo nell’ignoranza oppure, cosa ancora più grave, capiamo (Gesù infatti ci dona l’intelligenza) ma poi preferiamo rimanere nell’ignoranza.

Gesù mostra le sue mani e i suoi piedi, la sua umanità ferita, che i discepoli possano toccare. Gesù diventando uomo ha mostrato di essere veramente uomo patendo e soffrendo come uno qualsiasi di noi. Il cristianesimo non è spiritualismo o alienazione dal mondo, perché Cristo non è spirito o un fantasma, ma è incarnato. La testimonianza ci porta anche a toccare le ferite concrete di Cristo nelle piaghe degli uomini di oggi. Cristo lo possiamo toccare non più nella curiosità e nell’accertamento della sua presenza come avvenne per i discepoli, ma possiamo fare esperienza reale di Lui nell’Eucaristia, nella quale mangiamo la sua umanità ferita dal male e dal peccato degli uomini. Noi portiamo questa umanità ferita di Cristo perché la possiamo fasciare e curare nella carne degli uomini e delle donne di oggi.


Sia lodato Gesù Cristo.