La prima missione inviata da Gesù è un continuo «andare e venire» di discepoli che non avevano il tempo necessario neanche per soddisfare i loro bisogni elementari come la fame. Egli vede il pericolo di perdere il senso e il significato della missione che consiste prima di tutto in uno «stare con lui». L’attivismo è il grande pericolo che porta a guardare la nostra vita come un bene di consumo, a mettere come essenziale la pratica e non la teoria, ad agire senza un pensiero che ci porti a riflettere sul nostro agire, a ritenerci di essere cristiani senza una fede pensata. Una fede che non è pensata è semplicemente una «non fede».

I discepoli al loro ritorno sentono l’esigenza di narrare, raccontare l’esperienza vissuta. Fede e vita sono una narrazione, una condivisione. La fede sussiste nella nostra vita quando esce dall’isolamento. Facciamo fatica molte volte a comunicare la nostra fede perché ormai l’abbiamo totalmente sganciata dalla vita reale e perciò la fede rimane muta. Dio è colui che è uscito dal silenzio per comunicare con l’uomo: «Dio nessuno lo ha mai visto, solo il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui ce l’ha rivelato (narrato!)». Fede e vita vanno comunicate per essere supportate dall’esperienza di altri, per essere rettificate nel loro agire, per aumentare la fede. La fede non la si vive mai da soli e in modo intimistico!

Il Signore invita i suoi amici a ritirarsi in un luogo deserto per riposarsi un po’: non si tratta semplicemente di un invito a ricaricarsi per ritornare in un attivismo esasperato, ma occorre ricreare il giusto equilibrio con il Signore e con le persone. Gli apostoli avrebbero potuto correre il rischio di dimenticarsi di essere stati «inviati» e avrebbero potuto usare il loro potere non per servire ma per assoggettare le persone: «Voi avete disperso le pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati». Anche per noi vale lo stesso invito. La santa Messa, i sacramenti, la preghiera del cuore, l’adorazione sono i nostri luoghi deserti per ristabilire le giuste distanze con il Signore e con i fratelli che ci vivono accanto: «Ora, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo».

Il progetto del Signore viene vanificato dalle folle che lo seguono. Gesù non le manda via ma, preso dalla compassione perché erano come pecore senza pastore, incomincia ad insegnare loro nonostante la stanchezza e le fatiche apostoliche. Ci può essere anche il rischio che le nostre azioni siano dettate da un pragmatismo che non tiene conto della situazione reale delle persone e dei bisogni concreti della gente. Gesù è stato subito disposto a mettere da parte il suo diritto di riposo per lasciare spazio alla compassione. A volte le nostre rigidità con gli altri e la nostra scarsa disponibilità derivano da una mancanza di compassione che lascia da parte i nostri diritti per fare spazio ai bisogni degli altri. Chi di noi non ha sperimentato l’intransigenza, la durezza? «Fino a qui posso, ma non mi chiedere di più». La giustizia (nel senso di ciò che è giusto) a volte da sola non basta ma c’è bisogno di accompagnarla con la compassione: senza di essa l’amore si spegnerebbe e non ci sarebbe più nessuno disposto a sacrificare la propria vita.

Recentemente sono stato a Crissolo e, durante la preghiera mattutina, don Renato diceva ai ragazzi tre frasi che c’impediscono di crescere e diventare persone mature. Penso che queste parole valgano anche per noi: «non mi piace», «non ne ho voglia», «tocca sempre a me». Forse è quest’ultima che riguarda un po’ più da vicino la nostra vita di adulti. A volte in questa frase ci può essere qualcosa di vero, ma la stragrande maggioranza delle volte è una sottile forma per affermare il nostro «amor proprio».

Chiediamo in questa Eucaristia il grande dono della compassione e della misericordia. Gesù sapeva guardare al cuore delle persone e non solo al bisogno dell’altro che ci scomoda: «Mai egli si chiuse alle necessità e alle sofferenze dei fratelli», così pregheremo insieme nel prefazio.


Sia lodato Gesù Cristo