Il profeta Baruc descrive la fine della dura schiavitù del popolo: è il momento di svestirsi dell’abito da lutto per rivestirsi dell’abito donato da Dio. Gerusalemme è come una madre che aspetta trepidante il ritorno dei suoi figli e il ritorno degli esuli è descritto come se il creato assecondasse il rientro facilitandone il percorso. Questo gioioso rientro è una festa preparata da Dio stesso. Solitamente siamo noi che prepariamo una festa, che scegliamo l’abito da mettere. La nostra società dei consumi parla sì di una festa, ma che prepariamo noi e le pubblicità che ci «bombardano» fin dal primo dicembre c’indirizzano su questa strada. Le pubblicità non parlano mai d’Avvento, di una preparazione; oggi non c’è bisogno di celebrare il Natale proprio il 25 dicembre, perché natale è già iniziato, o come si preferisce chiamarla adesso: festa d’inverno. L’avvento non è semplicemente una parentesi prima del Natale, un campanello che ci ricorda che fra un mesetto è già Natale, ma è tempo in cui noi riscopriamo l’iniziativa di un Dio che viene a visitarci nella nostra vita, che ci vuole vestire del suo abito di giustizia e di misericordia per ritornare continuamente nella madre Chiesa dalla quale tutti ci allontaniamo con il peccato e il male. Questa iniziativa di Dio la possiamo scorgere non nelle strutture del potere politico e anche religioso come al tempo di Gesù, non in quei luoghi controllati, manipolati dagli uomini ma, come ci narra il Vangelo di oggi, la Parola di Dio scese su Giovanni nel deserto, un luogo abbandonato, desolato, che non interessa ai dominatori di questo mondo. È nel deserto del nostro cuore, nella nostra carne ferita che possiamo sperimentare l’iniziativa della Parola di Dio, nella nostra preghiera personale e qui nel deserto eucaristico che possiamo sperimentare l’iniziativa mirabile di Dio. Questa Parola non agisce mai da sola, in maniera magica ma s’innesta nella vita degli uomini e delle donne: abbiamo molte volte una visione troppo mondana della vita, pensiamo di agire sempre noi, di risolvere da soli i nostri problemi e le nostre difficoltà, ma non ci domandiamo mai che cosa il Signore ci vuole dire attraverso quell’esperienza di vita, anche quelle più faticose e dolorose. Noi di fronte agli ostacoli della vita pensiamo di cavarcela chiedendo a Dio una misera consolazione, un motivo di sfogo religioso, una «pacca sulle spalle» e che ci tolga ogni fastidio, ma non pensiamo mai che lì il Signore si sta prendendo cura di noi, che attraverso gli avvenimenti Dio ci sta educando ad essere più libero di amare, che la nostra «carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento». È Dio che abbassa i monti e colma le valli, è lui che raddrizza i suoi sentieri, che non sono i nostri. Dio mi sta aiutando a venirgli incontro! Ogni anno nell’avvento riconosciamo l’importanza di rifare continuamente questo percorso di purificazione e di accoglienza.

L’esperienza religiosa dell’antico popolo ci mostra che se si resta in una prospettiva mondana, non s’impara dai propri fallimenti, dai propri errori. Si può imparare dai propri errori se si ha una seconda possibilità, se si vede davanti una speranza, se si ha qualcuno al proprio fianco per rialzarci e continuare il proprio cammino: in questo cammino solo Dio ne è il garante. Altrimenti si percepisce la vita e si reagisce pensando di essere colpiti da un destino crudele.

«Ci sono quattro frasi diaboliche che circolano:

  1. Che male c’è?
  2. Sono fatto così.
  3. Fan tutti così.
  4. Tanto ormai…»
Don Domenico Machetta

Queste quattro frasi, luoghi comuni che circolano sulle nostre labbra, sono tentativi di fare a meno dell’iniziativa di Dio, di saltare l’Avvento arrivando subito a Natale, senza aver capito il linguaggio che Dio usa nella nostra vita; è vanificare la sua Parola. Chiediamo al Signore di portare a compimento l’opera che ha iniziato in noi fino al giorno della venuta del Signore nostro Gesù Cristo.


Sia lodato Gesù Cristo.