Nella pastorale parrocchiale, secondo la tradizione pedagogica e catechistica presente nel nostro paese, assistiamo spesso ad un invito centrato soprattutto sul digiuno, inteso come rinuncia. La Quaresima, nell’immaginario collettivo, è il tempo delle rinunce piccole e grandi, dei sacrifici e delle privazioni che potranno condurci a preparare più degnamente il cuore alla Pasqua. Non di rado, è possibile però scadere nel volontarismo e fare delle nostre forme di ascesi una sorta di prova di forza che ci porta, poi, a recuperare velocemente e non senza eccessi, ciò di cui ci siamo privati lungo la Quaresima. Questo tempo diventa allora propizio per fare più attenzione alla salute o al peso, riducendo o eliminando dolci, fumo, alcool e cose simili.
È utile guardare al passo evangelico che, ogni anno, il mercoledì delle Ceneri apre il nostro cammino. Le opere quaresimali ivi descritte sono tre: il digiuno, la preghiera e l’elemosina. Esse sono talmente correlate fra loro che non è possibile praticarne una isolatamente dalle altre. Ciò spiega anche perché le nostre rinunce quaresimali, anche quando vengono portate sino alla fine e non abbandonate lungo la strada, non producono mai un vero avvicinamento a Dio. In fondo, è sempre qualcosa che gestiamo noi senza davvero consegnarci al Padre. Invece, digiuno, preghiera e carità fraterna costituiscono un rinnovamento globale della vita, mosso dalla Parola e sostenuto da essa. L’uomo infatti è la somma delle proprie relazioni. Per quanto possiamo essere preoccupati di stare bene con noi stessi, ciò è impossibile se il nostro rapporto con Dio, con i fratelli e con il creato è segnato dal male. La Quaresima è invece il tempo in cui, sotto i soli occhi del Padre, liberi da esibizionismo e narcisismo (Mt 6,4.6.18) l’uomo può ritrovarsi come creatura attraverso il digiuno, come figlio, attraverso la preghiera e come fratello, attraverso la carità. Il testo di Mt 6 riporta al centro proprio l’assoluto del rapporto con Dio, unico caso serio della nostra esistenza. Tutto nasce da lì e viene a distorcersi quando anche la religione diviene strumento per vincere il senso di inadeguatezza, di nudità che ci portiamo dietro a causa del peccato.
Mai un'opera quaresimale senza le altre
Se allora pratichiamo una forma di digiuno, se creiamo uno spazio nella nostra vita, esso ha significato se viene consegnato a Dio, nella preghiera. Il digiuno deve favorire la preghiera. È finalizzato alla preghiera come lo è alla carità fraterna. Che senso avrebbe, infatti, privarsi di qualcosa per tenerlo ancora per sé? Nel digiuno imparo a non consumare voracemente cose e tempo, a non disporre del mondo e dei suoi beni come se fossero illimitati. Nel digiuno, apprendo che le cose non possono salvarmi, anche se le erigo ad idoli cui bruciare incenso. Grazie allora al digiuno imparo a gustare la Parola di Dio, la quale rimuove dal cuore ogni incrostazione e permette al grido fondamentale dell’esistenza di riaffiorare: «Abbà, Padre». Ci riscopriamo figli amati, cercati da Gesù che non ha avuto paura di farsi chiamare «amico dei pubblicani e dei peccatori» (Mt 11,19). Nella preghiera, comprendiamo come il nostro peccato fondamentale sia amare soltanto la nostra volontà, divenendo il dio di noi stessi e degli altri.
Grazie al digiuno e alla preghiera, possiamo guardare i nostri fratelli con occhi diversi: non sono più nemici o rivali nella lotta della vita, né il pubblico cui strappare quell’applauso che ci fa sentire qualcuno. Sono invece figli dello stesso Padre, segnati dalla stessa lontananza, peccatori che imparo a non giudicare perché la loro pagliuzza non è nulla in confronto alla trave che mi ostruisce la vista (Mt 7,3). Deposto il giudizio dell’altro, continuiamo, attraverso la carità e il dono di noi stessi, quel movimento che ci ha raggiunti nel perdono, quando il Padre si è chinato su di noi per abbracciarci e baciarci (Lc 15,20). È questa la trasfigurazione quaresimale, è questo il Tabor su cui il Figlio vuole condurci perché possiamo vedere la sua gloria e sentirci avvolti dalla predilezione del Padre (Mc 9,1-8).
Attraverso il digiuno, comprendiamo come trasformare le pietre in pane non riveli l’ultima essenza del creato: il mondo non è un supermarket, ma il banchetto che Dio ha preparato per noi affinché possiamo entrare in comunione con lui (Mt 4,4). Dalla liturgia apprendiamo il senso delle cose e come il nostro sacerdozio battesimale si compia nell’accoglierle rendendo grazie, non facendone un possesso esclusivo. Attraverso la preghiera intuiamo come Dio non vada tentato e piegato alla nostra volontà affinché possiamo gettarci in ogni sorta di volo, garantiti dai suoi angeli, per fare della fede uno strumento di autoaffermazione (Mt 4,6). Piuttosto ogni preghiera si compie nel Pater, nel quale chiediamo che sia fatta la sua volontà, come Cristo, nel Getsemani, aprendo i polmoni della vita al più grande respiro di Dio.
Infine, nell’attenzione amorosa al fratello, capiamo come la terra con i suoi regni non sia un luogo da assoggettare, credendoci sovrani ma riducendoci semplicemente a schiavi di chi realmente possiede questi regni (Mt 4,8). Al contrario, scopriamo una diversa grandezza, la grandezza del Signore e Maestro (Gv 13,13), ultimo e servo di tutti (Mc 10,44)) che non salva se stesso ma piuttosto apre il proprio regno a chi lo invoca e domanda la clemenza del ricordo (Lc 23,42). Questa è la realtà del Regno di Dio, unico paradiso possibile sulla terra.